La lettera di Nicola, volontario Urukundo in Burundi, è la ventiseiesima della rubrica “Lettere dalla missione”.
Cari ragazzi/ragazze,
come state?
Come vi dicevo già, avevo pensato di dedicare questa lettera all’assassinio del presidente burundese nel 1993. Come penso già sapete esso era con il presidente appena eletto del Ruanda. In realtà entrambi erano stati appena eletti. Per quanto concerne più precisamente il presidente del Burundi, esso era divenuto tale esattamente da tre mesi. Essi ritornavano in areo da una riunione svoltasi in Tanzania, e stavano rientrando nelle loro rispettive patrie. L’areo cadde, non per caso ma per volontà precisa di alcuni, e i due presidenti morirono insieme prima di poter riabbracciare la loro amata terra. Questa prefazione, di sicuro alquanto breve e poco argomentata, fu la prefazione di un guerra civile, di una guerra etnica, di un vero e proprio genocidio. Non sono uno storico, e in questa lettera non aspiro a compiere una dissertazione storica, poiché ne sarei profondamente incapace. Ciò che posso, e mi sento di fare è di dirvi che cosa le persone che ho incontrato qui mi hanno detto riguardo la guerra. Le stesse persone che ancora continuano a raccontarmi storie crudeli giorno dopo giorno. In più mi piacerebbe anche condividere con voi la mia di testimonianza, dal momento che è da tre mesi e mezzo che sono qui, e vivo istante dopo istante i frutti dell’atroce colonizzazione.
In verità quando la guerra scoppiò in questa parte dell’Africa, spesso dimenticata dagli assopiti occhi occidentali, io ero così tanto piccolo e così tanto ingenuo. Avevo solo tre anni, e probabilmente riuscivo appena a comprendere ciò che mi attorniava fisicamente. Di sicuro nella mia infanzia non pensavo all’Africa, come tanti fra di noi in occidente, e sostanzialmente sono cresciuto non pensandola affatto. Sono cresciuto dimenticando, in una maniera negligente, momento dopo momento quella mia piccola e allo stesso tempo essenziale parte di me Africana. Parte che in ogni caso si trova all’interno di ognuno di noi. Non soltanto in Nicola, o bene in Simone o Lucia. Essa è una luce che si trova e si troverà per sempre in ognuno di noi. Spero tanto che un giorno il mondo sarà più consapevole di quello che ha fatto, di quello che continua a fare, e specialmente di quello che dimentica istante dopo istante, preso come esso è per una fretta egoistica di fare, di accumulare, di contare, di prevaricare. Quando inizieremo veramente a vivere la vita? Quando cominceremo a camminare dentro di noi, per scorrere a poco a poco verso l’incontro sincero con l’Altro?
In ogni caso, per tornare al nostro soggetto, cominciai a pensare alle Terre in via di sviluppo più o meno verso i 19 anni, e con più attenzione all’Africa verso i miei 22. Quando pensavo all’Africa non pensavo di certo al Burundi. Il mio era un sogno africano che coltivavo da tempo, e che in realtà si realizzava poco tempo dopo verso la fine dei miei 23 anni appunto in Burundi. Sono così gioioso di essere qui. Tante tante volte mi succede di svegliarmi, pensando a quello che ho la possibilità di provare giorno dopo giorno, e al fatto che il mio sogno sia diventato reale. Sì posso affermare ad alta voce, che i sogni possono veramente diventare realtà se solo lo si vuole fino in fondo.
Ritornando a noi, posso dire che appresi le vicissitudini della guerra pochi mesi prima di partire, ed è fondamentalmente quando ho iniziato a portare finalmente i miei occhi e i miei piedi nella terra Burundese, che ho cominciato veramente a comprendere. Comprensione che continuo giorno dopo giorno, e che penso di non poter finire mai.
Quindi è proprio qua che i burundesi mi hanno cominciato a parlare della guerra, e allo stesso tempo è appunto nella loro terra che ho visto gli effetti funesti della colonizzazione. Colonizzazione, che per molti, fu il porta-voce principale ma al contempo latente di tutte le guerre svoltesi in Burundi. Sono i bianchi, sì i bianchi come me, come voi tutti, che hanno introdotto le prime distinzioni etniche dando tutto il potere ai Tutsi, ovvero il 13% del popolo burundese, e lasciando in tal modo l’84% della popolazione, ovvero gli Hutu, soggiogati e imprigionati dai primi per quasi mezzo secolo. Naturalmente in questa categorizzazione etnica dove i primi erano i prescelti e i secondi erano come degli schiavi, non ho enumerato i nostri cari amici Pigmei che sono il 3% della popolazione burundese. Quest’ultimi venivano profondamente stigmatizzati e messi da parte come degli scarti immondi, indegni di camminare nel suolo burundese. Si, i nostri cari amici erano totalmente disprezzati, e tutt’ora essere un Pigmeo nel suolo Burundese è tutt’altro che semplice. Ci tengo a dire che è proprio riguardo al nostro apostolato che intravedo gli occhi di Cristo. È completamente meraviglioso il desiderio di cristiano di aiutare gli ultimi fra gli ultimi. Di soccorrere i più miseri fra i miseri. Pensare che il Burundi è il paese più povero in Africa, e all’interno di tale esagerata povertà ci sono ancora degli esseri umani che decisero di aiutare gli ultimi degli ultimi in questa doppia povertà estrema. Mi reca sempre una sorta di gioia rasserenante pensare a quello che facciamo qua. È per questa ragione che ogni mattina quando mi sveglio mi sento onorato di poter condividere la mia vita con loro, poiché i nostri cari amici Pigmei mi danno incommensurabilmente tanto giorno dopo giorno, istante dopo istante. Sarei un insincero ipocrita se negassi l’energia che essi mi danno. Per vero essi fungono da vero e proprio sostegno morale, che mi permette di continuare a affrontare momento dopo momento ogni nuovo giorno africano. Essi mi permettono di sognare di permanere qua un anno. Essi mi danno la forza per poterci sperare. Senza di loro non ce la potrei fare. Non mi sento mai in difficoltà con loro, non mi sento mai giudicato né straniero. Mi sento una parte integrante del collegio, e sapete sentirsi veramente accettati, sentirsi veramente a casa, è la sensazione più pura e più soave che secondo me l’uomo ha la possibilità di percepire in questo mondo.
Iniziando però questa dedica ai miei cari amici e fratelli del collegio, mi sto un po’ disperdendo riguardo le vicissitudini della guerra.
Quindi eravamo arrivati al fatto che i bianchi dopo aver colonizzato, lasciarono il potere nelle mani di una piccolissima parte della popolazione, ovvero i Tutsi. Qua mi raccontavano che i colonizzatori all’epoca amavano chiamare i loro amici Tutsi dei bianchi nati con la pelle nera. Infatti l’ipocrisia e soprattutto la stupidità arrogante dei bianchi, li aveva portati a fare delle differenziazioni etniche soprattutto basandosi sulle qualità fisiche o bene fisiologiche. Quindi il loro non senso li aveva portati a dichiarare che i Tutsi erano più simili ai bianchi, dal momento che erano alti e forti. Per contro gli Hutu meno forti e meno prestanti fisicamente erano l’altra etnia. Naturalmente una volta arrivato qui, mi spiegarono che tale distinzione etnica, basata sull’aspetto fisico, era in gran parte erronea. Sostanzialmente fu un altro atroce aspetto dell’Arroganza dei colonizzatori che pensavano di poter conoscere, e di poter sapere tutto. A volte mi chiedo fin dove l’uomo arriverà con questo pernicioso desiderio di fare del male, di distruggere, di massacrare, di prevaricare l’Altro. Quando ci penso ne sono totalmente nauseato, mi verrebbe voglia di vomitare sopra coloro che al tempo vennero qui in Burundi, e d’altronde ovunque in Africa, per distruggere e per soffocare un popolo che non conoscevano neanche. Mi verrebbe voglia di urlargli contro fino a perdere la voce che l’uomo viaggia per conoscere, per conoscersi con e nell’Altro, e non per massacrare e per portare la propria idea, il proprio modo di vivere come simbolo assoluto da seguire in una maniera irrevocabile. Sapete quando passeggio in mezzo alla gente e che vengo chiamato Umuzungu, ovvero Uomo Bianco, almeno 50 volte al giorno mi chiedo il perché del fatto che debba essere sempre riconosciuto per la mia razza bianca, come se fossi un oggetto bianco che cammina per la strada. Mi chiedo il perché non possa essere visto come un essere umano come loro. Sapete quando quelle 50 volte al giorno in cui mi chiamano Umuzungu sono irreversibilmente accompagnate dalla richiesta di soldi, mi chiedo costantemente perché io debba essere visto come un soldo bianco che cammina. Perché debba indiscutibilmente essere riconosciuto o bene qualificato come un oggetto di razza bianca che cammina portatore di soldi. È atroce pensare a tutto questo, e per tanti versi è abominevole viverlo. Quando ci penso, e d’altronde sarebbe impossibile non pensarci dal momento che sono gli africani stessi che ti ci fanno pensare giorno dopo giorno chiamandoti in questo modo e per questo nome, ne soffro immensamente e mi sento dannatamente solo nella mia sofferenza. Mi sento non capito, poiché tale considerazione dell’uomo bianco è talmente ancorata nella loro coscienza collettiva, che diviene una sorta di impulso meccanico comportarsi in tale maniera alla vista di un bianco. È un riflesso incosciente, non riflettuto che si ripercuote nel reale cosciente di ogni giorno. Ho visto bambini piccolissimi che secondo me non erano neanche in grado di parlare ancora il Kirundi, ovvero la loro lingua nazionale, che vedendomi riuscivano a verbalizzare alla perfezione il suono Umuzungu. Penso che la parola Uomo Bianco sia la terza parola che ogni essere umano burundese apprende, dopo i suono verbali di Mamma e Papà. L’uomo bianco sarà sempre visto come un immenso portatore di soldi, dal momento che furono i colonizzatori i primi a portare i vestiti, a portare i soldi. A costruire strade e Scuole. Per contro io mi domando quale fu il prezzo da pagare per gli africani a causa di tutto questo?? Quale fu il prezzo da pagare per questa cosiddetta civilizzazione che i bianchi portarono?? Il prezzo da pagare fu la morte di milioni di persone. Lo sterminio di una cultura locale per introdurne un’altra. La cultura dei bianchi. Quando penso a tutto questo sono come assalito da una nausea soffocante che mi permette a mala pena di respirare. Pensare che io ho deciso di abbandonare tutto per dedicarmi cuore e anima alla condivisone africana. Potevo continuare gli studi, o bene lavorare come d’altronde fanno tutti, per contro ho preso la decisione di venire qua, poiché volevo ritrovare qualcosa di speciale, volevo ritrovare la bellezza di essere e sentirmi un essere umano, figlio e fratello di un mondo solidale e aperto all’incontro con l’Alterità. Ho deciso di venire in Africa, e ne sono infinitamente gioioso, poiché a poco a poco ho sempre più la possibilità di fare un lungo e intenso lavoro su me stesso che non avevo mai intrapreso prima. O almeno non con le stesse intensità e con lo stesso ardore. Detto questo non posso però negare il pensiero che ho appena condiviso sulla colonizzazione, sulla quotidiana vita africana poiché esso è frutto di quel lungo lavorio interiore che sto facendo nei confronti di me stesso. Continuo a trovare in una certa maniera paradossale il fatto che la gente mi domanda continuamente dei soldi, quando io appunto ho deciso di venire in Burundi a fare del volontariato per tutt’altre ragioni che donare materialmente dei soldi. Sono venuto per donarmi interamente, poiché penso che ognuno di noi valga infinitamente più di un futile e spesso dannato foglio di carta che l’Uomo ha sardonicamente chiamato soldo. Tuttavia per quasi tutti i burundesi Nicola resta e resterà per sempre solo un soldo bianco che cammina. E’ la stessa cieca ragione, che potrebbe senza alcun problema sollecitarli a uccidermi in una disperata ricerca di soldi se camminassi di notte da solo. Uccidermi poiché sarebbe incredibilmente inconcepibile immaginare, e pensare a un Bianco sprovvisto di soldi. Ma d’altronde come potrebbero vedermi in una maniera diversa?? Furono i bianchi i primi qui a donare i soldi, a donare i vestiti, a voler dimostrare quanta superiorità differenziava i bianchi dai neri. Quante cose attorniavano l’Occidente allora che l’Africa era una terra considerata di retrogradi selvaggi da sfruttare, dominare e civilizzare. Che nausea che a volte penetra il mio intero corpo. Come potrebbero quindi vedere il Bianco in un modo diverso che un portatore e facitore di soldi?? Essi sono delle vittime della storia, come d’altronde nella mia superficiale e minuscola piccolezza di essere umano io ne sono vittima. A volte è paradossale e allo stesso tempo bizzarra l’altalena della vita. Si viene in una terra nuova pensando di trovare tanto, e alla fine si è vero che si trova tanto, ma allo stesso tempo si trovano tante di quelle cose che non ci saremmo mai immaginati di trovare. Cose che ti fanno soffrire, che ti fanno piangere, che ti fanno venire voglia di non credere alla crudeltà, che in tante occasioni ha pervaso e al contempo offuscato l’Uomo. Mi accorgo che tante volte quando passeggio, e vengo chiamato Umuzungu la cosa che più mi destabilizza è di essere riconosciuto, e in una certa maniera categorizzato come una sorta di figlio di una razza bianca, che molto spesso nella storia ha dimostrato di essere una razza di assassini crudeli e immondi, credendosi conquistatori di un mondo che in realtà non hanno mai conquistato e che non conquisteranno mai. Massacrare, sterminare, portare via sono secondo me sono soltanto degli atroci sinonimi della morte. Può l’uomo conquistare la morte?? Mai potrà. Al posto di conoscere l’Altro, essi vennero per affrontarlo, per dominarlo, per soggiogarlo. Il viaggio che nasce come lo spirito libero per eccellenza, dove s’incontra l’Altro, dove ci s’incontra, fu ciecamente trasformato dai colonizzatori come un’opportunità di scontro. Potevano cercare il supremo Incontro, ma essi per contro scelsero l’immondo Scontro. Personalmente ne soffro giorno dopo giorno, e mi sento disgustato di essere figlio di quel secolo. Figlio di un popolo bianco che ha creato tanto terrore nel mondo. Quando mi guardo dentro soffro momento dopo momento di essere figlio di un popolo bianco, che mi fa pagare istante dopo istante sulla mia pelle ciò che non ho fatto, ciò che non ho commesso. È un vero e proprio indimenticabile incubo, pensare fino a quale punto i Bianchi osarono spingere la loro cieca e egoistica crudeltà in Africa. Una vergogna che pervaderà per sempre determinati contorni dei miei occhi, finalmente divenuti coscienti di che cosa successe tanto tanto tempo fa nell’altra parte del mondo. Vergogna che ha creato la stessa guerra civile del 1993, poiché come dicevo fu una guerra etnica, e chi se non i bianchi portano le prime categorizzazioni etniche?? Che cosa altro le parole possono arrivare a descrivere quando si tratta di un popolo intero che piange per una guerra etnica, per una guerra civile in una certa maniera indispensabile a far capire che gli uomini erano esausti di essere ingiustamente dominati, comandati in un modo dittatoriale e disonesto. Fu lo stesso popolo in rivolta che decise finalmente di pronunciare le magiche sillabe che prendono il suono di “No” per urlare a voce alta che il Burundi non poteva continuare ad essere comandato da un piccolo numero di persone dispotiche. Così finalmente elessero un presidente Hutu, e come iniziavo la mia lettera quel presidente cruciale nella storia della libertà burundese venne assassinato il 21 ottobre del 1993. L’assassinio della libertà scosse fino in fondo un popolo già in rivolta, che cominciò un massacro etnico fra gli Hutu e i Tutsi. Un massacro che colpì e toccò il cuore di tutti. Un massacro che li portò tutti all’inferno. Un inferno divenuto terrestre. Durante tale genocidio gli sporchi bianchi colonizzatori ebbero ancora il coraggio di dire che erano dispiaciuti per i loro confratelli Tutsi, visti come vi dicevo come dei bianchi nati con la pelle nera, che venivano uccisi giorno dopo giorno durante la guerra. Non ho parole per descrivere quale livello di disumanità i bianchi lambirono con le loro immonde mani. Mi viene solo voglia di piangere. Solo voglia di comprendere il perché di tutto questo. In ogni caso la guerra terminò nel 2005, lasciando ancora in sospeso tante cose, tanti pensieri. Per molti il conflitto etnico non è ancora finito, tanti altri fanno finta di non pensarci cercando di andare comunque avanti. Personalmente ciò che posso dire, è che fu proprio in quel sorriso che funge da dolce sottofondo a qualsiasi cosa qui in Burundi, e che fu il sottofondo dei racconti di guerra che io compresi quanta forza e quanta voglia di sorridere hanno gli africani. Pensare che dall’altra parte del mondo ci angosciamo, e entriamo in una nera e oscura inquietudine per Niente allora che qua essi trovano ancora l’energia e il puro coraggio di sorridere insieme, di sorridermi momento dopo momento dopo tutto questo oceano di male che hanno passato e vissuto in profondità nella loro pelle. È stupefacente il loro desiderio di vivere, di dire “Sì” alla vita in tutti i suoi contorni. In tutti i suoi aspetti.
Detto questo non posso che ringraziare l’Africa per tutto quello che mi sta dando. Per tutto quello che mi sta facendo capire. Volevo venire qui, poiché ero talmente desideroso di aprire completamente i miei occhi nei riguardi del mondo. Volevo vedere, vedere con i miei propri occhi. Volevo divenire cosciente di essere nel mondo, di esserci. Finalmente mi ritrovo nel bel mezzo di una terra radicale e esagerata, come tutto d’altronde qui in Burundi, e ringrazio infinitamente il cielo di avermi dato la possibilità di poter scrivere il mio viaggio con e in mezzo a loro. Soffrendo e gioendo. Soffrendo e sentendomi vivo come non mi succedeva da tempo.
Riflettete sul mondo poiché esso vi appartiene. Poiché esso abbraccia ognuno di noi. Poiché esso ci permette di sentire, di sentirci insieme.
Vi abbraccio nel sorriso della vita.
Buon cammino.
Nicola
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