Una coppia di giovani di Fano, Irene e Luca, Ingegnere lei e Grafico lui (e segretario del CMD Fano) decidono di partire per l’Africa…
Così è iniziata la nostra esperienza.
Dopo un anno di meditazione sul da farsi decidiamo di partire e senza troppe organizzazioni compriamo i biglietti…
Partiti il 27 Luglio, dopo 24h di viaggio, arriviamo a Tete, capoluogo dell’omonima provincia a nord del Mozambico; sin dall’atterraggio si poteva notare la differenza di paesaggio rispetto al mondo italiano; appena arrivati ci viene a prendere Padre Sandro, missionario Italiano della Consolata e sostituto temporaneo del vescovo, e con lui trascorriamo le prime ore africane tra racconti e raccomandazioni del caso.
L’indomani raggiungiamo un gruppo di ragazzi che stavano concludendo una settimana di formazione come animatori missionari, nulla di così diverso dal Campo Missionario Diocesano che si tiene nella nostra Diocesi tutti gli anni; erano guidati da un giovane Missionario laico venezuelano di nome Efrem con cui poi abbiamo trascorso tutta la settimana successiva. In queste due giornate passate con loro, ci siamo potuti confrontare a lungo, dato che alcuni parlavano inglese (la lingua ufficiale del Mozambico è il Portoghese, a noi ignoto, perlomeno all’inizio dell’esperienza). Abbiamo chiesto tutte le curiosità che fino a quel momento ci avevano colpito e loro hanno fatto lo stesso per noi, loro non si spiegavano come noi a 30 anni potessimo non avere un gregge di figli e noi non ci spiegavamo il perché di quella strana “gonna” che tutte le donne portavano: la “Capulana”, una stoffa africana con immagini e colori tipicamente africani che usano le donne in molteplici condizioni, come marsupio per i bimbi, per proteggersi dal freddo, come telo da appoggiare a terra ma anche come segno di rispetto verso gli altri e verso se stesse.
Dopo la festa, tipica di fine campo missionario, siamo partiti verso Manje, una città a circa 3 ore da Tete, con Efrem e un Padre Missionario brasiliano di nome Devanil. Arrivati a Manje abbiamo conosciuto anche Padre Antonio, un prete venezuelano che insieme ad Efrem ha costruito (nel senso pratico del termine) una parrocchia e altre strutture per la comunità, abbiamo visitato la città, i suoi mercati, le scuole, gli uffici del governo. Come bambini cercavamo di apprendere il più possibile da quello che ci circondava e come cinesi cercavamo di fare più foto possibili per far rimanere i ricordi.
Il giorno seguente siamo ripartiti, direzione Cassacatiza, un villaggio vicino al confine con lo Zambia. Mentre fino a quel momento non avevamo ancora visto la vera e propria Africa, qui abbiamo toccato con mano le reali condizioni di vita dei Mozambicani. Abbiamo passato otto giorni senza elettricità ne acqua corrente, il che vuol dire: senza luce, senza poter caricare i telefoni o la macchina fotografica e senza alcun tipo di condizione igienica, sia di bagno che di cucina. La nostra suìte era un materassino appoggiato a terra su un paglierino in un vero e proprio nido di ragni, il bagno era una recinzione di paglia in cui si facevano i bisogni a terra e la cucina erano quattro bastoni appoggiati a terra a cui veniva dato fuoco e sopra veniva appoggiato un pentolone in cui mangiava tutto il villaggio. A parte le condizioni igieniche, a cui in poco tempo ci si doveva adattare, abbiamo iniziato la vera e propria missione: al mattino ci adoperavamo con la popolazione del luogo nella costruzione di un bagno in muratura (finalmente dopo 5 anni di ingegneria Irene ha preso in mano cazzuola e mattoni) e al pomeriggio facevamo gioco/scuola con i bambini del villaggio dato che la maggior parte di loro non ha istruzione e nulla da fare tutto il giorno. Tutti i giorni questa era la routine. Abbiamo quindi vissuto al 100% il villaggio, i bambini e i loro giochi, le messe infinite cantate e ballate, le differenze culturali ma soprattutto le somiglianze. Il penultimo giorno dopo due ore e 15 km di cammino abbiamo raggiunto un villaggio “vicino” per celebrare la messa e continuare a portare la parola e la fede anche lì dato che spesso non viene raggiunto per settimane e per mesi a causa dell’assenza di un ponte per poter attraversare il fiume che separa i due villaggi.
Dopo un piccolo “inconveniente” e una breve tappa in una clinica, siamo ritornati a Manje per “visitare” un ospedale un po’ più attrezzato e per fare armi e bagagli per poi affrontare un altro viaggio.
Il giorno successivo siamo quindi partiti per l’Angonia, sulle montagne del Mozambico, per andare a trovare Padre Cesario, un sacerdote mozambicano che studia da tre anni a Fano. Un paesaggio e un panorama completamente diversi da quello che avevamo visto fino a quel momento, ma anche un clima molto più rigido. Cesario ci ha fatto conoscere la sua famiglia, la sua città, le sue tradizioni, abbiamo trascorso con lui tre giorni prima di affrontare l’ultima nostra esperienza, l’orfanotrofio o meglio “l’orfanato”.
Rifatte le 5 ore di viaggio in questi pulmini sovraccarichi di persone, animali e cose (un pulmino da 16 veniva caricato con 24 persone circa) torniamo a Tete. Arriviamo all’orfanotrofio dove troviamo una situazione un po’ atipica, poiché in quel periodo in Mozambico si stava effettuando il censimento e i professori erano gli incaricati di tale ruolo. Non essendoci gli insegnanti non c’erano lezioni e quindi i bambini erano tutto il giorno in “autogestione”, ma in questo modo abbiamo potuto passare tutte le giornate con loro… dal momento del bagnetto, ai giochi, alla preparazione dei pasti. Non nego che sia stata dura, dura da pensare che quei bambini erano orfani, dura da pensare che non hanno nessuno che li coccoli e dura vederli così già maturi e autosufficienti alla loro età. Li abbiamo coccolati ma soprattutto ci hanno coccolato, gli abbiamo insegnato giochi ma più che altro loro ce ne hanno insegnati e a malincuore dopo 4 giorni li abbiamo dovuti lasciare.
Siamo risaliti su quell’aereo dopo un mese RICCO di esperienze, RICCO di amore, RICCO di vita e ora siamo più forti di prima, più uniti di prima e più RICCHI di prima.
Luca e Irene