Il racconto missionario di Giulia e Eugenio

Quattro ragazzi tra i 18 e i 32 anni provenienti da varie parti della diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola hanno dedicato un mese della loro estate 2018 ad un’esperienza in missione.
La meta è stata Gitega, Burundi, ospiti dei Padri del Buon Pastore e della Regina del Cenacolo, che da ormai tanti anni, sostenuti anche dalla diocesi di Fano e dall’associazione Urukundo onlus, conducono progetti a favore dei pigmei, la parte più povera della popolazione burundese.

Qui il racconto di due di loro, Giulia e Eugenio.

Giulia ci racconta la sua esperienza estiva in Burundi

“Ciao, sono Giulia! Sono una ragazza di 20 anni e ho deciso di fare un’esperienza in Burundi per mettermi in gioco in una cosa che a pelle mi “ispirava”, anche se la scelta di partire è stata un po’ lunga, dato che l’idea mi è venuta circa due anni fa quando mi hanno regalato, per il mio diciottesimo, dei soldi per un viaggio; non conoscevo bene l’associazione , avevo solo sentito parlare di alcuni progetti e avevo ascoltato qualche resoconto del viaggio … beh alla fine è stata un’esperienza che mi ha dato più di quanto potessi immaginare: è stato davvero bello vedere e vivere un altro mondo, così diverso e lontano dalla nostra quotidianità, e sentircisi comunque bene.

Quando mi chiedono cosa sono andata a fare faccio sempre un po’ fatica a rispondere, perché non è un’esperienza di volontariato come siamo soliti intendere, è una vera e propria esperienza di condivisione della vita dei preti, dei fratelli e dei novizi della Congregazione in cui siamo stati ospitati: nonostante la diversità culturale, di abitudini e di visioni abbiamo condiviso la quotidianità di questi ragazzi di 25-30 anni, abbiamo parlato, riso e scherzato con loro.

Prima di partire un amico che sapeva delle mie preoccupazioni e dei tentennamenti sul viaggio e su quello che avrei fatto, mi ha detto “Porta te stessa”: questo ho cercato di fare nelle visite, negli incontri, nei momenti passati con i novizi e anche nel piccolo progetto delle CAM. E questo è quello che mi sento di consigliare a chiunque stia pensando alla partenza: portate voi stessi, quello che siete, e vivete tutto senza aspettative, con gli occhi spalancati, pronti a trarre il possibile da ogni momento.

Quelli della congregazione ci chiamano “visitatori”, ed è questo che praticamente abbiamo fatto: visitare il paese e i progetti di Urukundo e della Congregazione, che sono volti a cercare di migliorare le condizioni di vita dei pigmei, gli ultimi del Burundi, di questo paese che chiamano il “cuore malato” dell’Africa. Visto che avevamo raccolto delle donazioni prima di partire, con un aperitivo di beneficienza, abbiamo cercato di capire quale fosse il modo migliore di destinarle, chiedendo nei villaggi quali fossero i loro problemi, e sulla base di ciò abbiamo deciso di acquistare delle Carte di Assicurazione Medica (CAM) per circa 350 famiglie. Mi è piaciuto tantissimo trovare un progetto pratico da portare avanti, e adoperarmi per realizzarlo: per acquistare queste carte abbiamo dovuto fare dei veri e propri censimenti di 5 villaggi, con tanto di fototessera per ogni genitore. (foto in allegato)

È stato difficile all’inizio constatare che ci sono tanti problemi e che né noi in quel momento né l’associazione in generale poteva pensare di risolvere a breve. Ho provato un iniziale sentimento di impotenza nel confrontarmi con la realtà dei villaggi (e non solo, anche con quella del mercato di Gitega, dell’orfanotrofio, di Ipred, ovvero il centro per ragazzi di strada, del centro disabili). Uno dei primi giorni abbiamo conosciuto una suora italiana, Suor Erica, e parlandole di questo senso di impotenza, lei mi ha risposto: “Non è vero che non potete fare niente, potete portarci nel cuore”. Ed è questo che voglio fare ora, e voglio anche cercare di trasmettere e diffondere in Italia il più possibile di quest’esperienza, lo devo a tutti loro. Anche se ci sembra di non poter fare niente, e che alla fine le donazioni siano solo soldi, per loro questo vuol dire molto, e non solo in termini economici: quando abbiamo incontrato i 9 ragazzi del progetto Università è stato bello sentirsi dire, con gli occhi pieni di gratitudine “Grazie. Senza l’associazione e senza le donazioni noi non potremmo fare questa vita, tutto questo lo dobbiamo a voi”. Incontrarli, vedere la “fine” di un progetto per me è significato molto: dopo un mio primo momento di sconforto per le condizioni apparentemente irrisolvibili in cui vivono nei villaggi, questi ragazzi, che fanno una vita completamente diversa da quella dei loro genitori e dei loro familiari grazie all’istruzione, mi hanno dato la speranza che anche per loro le cose possano cambiare, con il tempo, con la pazienza e con il nostro aiuto.

Le emozioni che ho provato nei villaggi, con i bambini incontrati lì o negli orfanotrofi, la serenità dei viaggi in macchina con della musica burundese in sottofondo e lo sguardo perso tra colline di terra rossa, la visione mozzafiato di un tramonto o di un’alba, ma soprattutto le persone che ho incontrato e con cui ho parlato in maniera sincera: queste sono le cose che mi porterò sempre nel cuore, nel “kumutima”, come dicono in Kirundi.”

Giulia

Le parole di Eugenio: un’esperienza che mi ha catturato

“Visitare questo paese per me è stato come realizzare un sogno che da tempo era dentro il mio piccolo cuore. Dico piccolo perché a completamento del viaggio che duro purtroppo solo un mese, ci si accorge di quanto, nella società attuale, si sia persa quella solidarietà e quella voglia di aiutare il prossimo e che di conseguenza il nostro cuore si sia di tanto rimpicciolito.

Il mio viaggio in Burundi (o per meglio dire il nostro viaggio, perché a farmi compagnia in questa splendida avventura c’erano anche Mattia, Giulia e Benedetta) cominciò il 25 Luglio, a distanza di una ventina di giorni dalla mia tanto attesa maturità.

Subito ad accoglierci e a dimostrarci un amore incondizionato c’erano i membri della congregazione degli Apostoli del Buon Pastore e della Regina del Cenacolo: una ventina di persone tra padri, fratelli, novizi, postulanti e collaboratori vari, che oltre a fornirci tutto l’aiuto possibile per rendere il nostro soggiorno “comodo”, dedicano la loro vita ad aiutare gli ultimi del Burundi: i Pigmei.

Nella Repubblica Democratica del Burundi vivono tre etnie distinte: gli hutu, i tutsi e i pigmei, che per motivi non discriminatori chiamavano “nostri amici”. Quest’ultima è in netta minoranza rispetto alle altre due etnie, una delle tante ragioni per cui i nostri amici sono emarginati dal resto della popolazione e vivono isolati nelle campagne in luoghi spesso impervi e privi di ogni contatto con la società.

Uno dei più grandi aiuti che i nostri amici ricevono sono opera dei membri della congregazione del Buon Pastore che grazie all’aiuto prezioso dell’Associazione Urukundo onlus, porta avanti numerosi progetti (mattone, carta d’identità, adozioni a distanza, università), volti ad aiutarli, cercando di renderli indipendenti e soprattutto autosufficienti.

In questi giorni abbiamo avuto l’opportunità di visitare numerosi villaggi, dove portavamo farina e pesce, caramelle per i più piccoli, del sapone per ogni famiglia e del vestiario. In media ogni villaggio è composto da circa 50 famiglie ed oltre ad essere stati completamente catturati dai quegli sguardi così autentici e sorridenti, effettuavamo una serie di domande per poter capire la situazione sociale, economica e soprattutto di salute degli appartenenti al villaggio. Dopo aver individuato i principali bisogni dei nostri amici e dopo un attento confronto con i padri e i fratelli della Congregazione abbiamo deciso di iniziare un piccolo progetto, ma che potrebbe dare loro un grande aiuto: le CAM (Cartes Assurance e Maladie). In sostanza si tratta di un’associazione medica che viene concessa famiglia per famiglia, grazie alla quale si può accedere più concretamente ai servizi medico sanitari, si usufruisce di un grande sconto sui medicinali e sulle cure e i bambini dai 5 ai 18 anni pagano una somma molto ridotta.

Le giornate erano piene e quando non avevamo la possibilità di visitare i villaggi, dedicavamo del tempo alla visita di strutture esterne alla Congregazione, come il complesso scolastico di grado superiore gestito è realizzato dalla comunità delle Suore Operaie: un istituto medico-pedagogico per bambini e ragazzi con disabilità fisiche e mentali, un orfanotrofio, un centro diurno per bambini di strada o con gravi problemi famigliari. Quest’ultimo è gestito da volontari e oltre a garantire ai bambini due pasti al giorno, realizza laboratori per la costruzione di piccoli oggetti fatti a mano.

È stato incredibile il fatto di poter toccare con mano questi progetti, una gioia immensa per me passare del tempo con i ragazzi che frequentano l’università (tramite il progetto università) e vedere la trasformazione è il processo culturale che dal villaggio isolato li ha portati ad ottenere una laurea.

Un sincero ringraziamento va fatto alla Congregazione del Buon Pastore, che ci hanno messo a disposizione l’alloggio e che ogni giorno cercavano di farci sentire come “a casa”. Un’esperienza tutta da vivere che ti lascerà nel cuore un senso di profonda commozione verso tutto quello che significa vivere in un ambiente così povero e ostile. Un’avventura che vale la pena di intraprendere; un percorso che all’inizio potrà sembrar difficile, ma che poi ti cattura e non ti lascia più. Un sogno che si è realizzato.”

Eugenio

 

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Estate in Burundi: racconti di un viaggio nel cuore “malato” dell’Africa

Quattro ragazzi tra i 18 e i 32 anni provenienti da varie parti della diocesi di Fano Fossombrone Cagli  Pergola hanno dedicato un mese della loro estate 2018 ad un’esperienza in missione. La meta è stata Gitega, Burundi, ospiti dei Padri del Buon Pastore e della Regina del Cenacolo, che da ormai tanti anni, sostenuti anche dalla diocesi di Fano e dall’associazione Urukundo onlus, conducono progetti a favore dei pigmei, la parte più povera della popolazione burundese.

Giulia ci riporta le emozioni vissute durante questo intenso mese: “Quando mi chiedono cosa sono andata a fare faccio sempre un po’ fatica a rispondere, perché non è un’esperienza di volontariato come siamo soliti intendere, è una vera e propria esperienza di condivisione della vita dei preti, dei fratelli e dei novizi della Congregazione in cui siamo stati ospitati” e aggiunge “Ho provato un iniziale sentimento di impotenza nel confrontarmi con la realtà dei villaggi (e non solo, anche con quella del mercato di Gitega, dell’orfanotrofio, di Ipred, ovvero il centro per ragazzi di strada, del centro disabili). Uno dei primi giorni abbiamo conosciuto una suora italiana, Suor Erica, e parlandole di questo senso di impotenza, lei mi ha risposto: “Non è vero che non potete fare niente, potete portarci nel cuore”. Ed è questo che voglio fare ora, e voglio anche cercare di trasmettere e diffondere in Italia il più possibile di quest’esperienza, lo devo a tutti loro”. Eugenio invece ci spiega la delicata situazione dei pigmei nel Paese e ci racconta il lavoro svolto nel tempo trascorso in missione: “Nella Repubblica Democratica del Burundi vivono tre etnie distinte: gli hutu, i tutsi e i pigmei. Quest’ultima è in netta minoranza rispetto alle altre due etnie: una delle tante ragioni per cui i pigmei sono emarginati dal resto della popolazione e vivono isolati nelle campagne in luoghi spesso impervi e privi di ogni contatto con la società.
Uno dei più grandi aiuti che i pigmei ricevono sono opera dei membri della congregazione del Buon Pastore che grazie all’aiuto prezioso dell’associazione Urukundo onlus, porta avanti numerosi progetti (mattone, carta d’identità, adozioni a distanza, università), volti ad aiutarli, cercando di renderli indipendenti e soprattutto autosufficienti. In questi giorni abbiamo avuto l’opportunità di visitare numerosi villaggi e abbiamo deciso di iniziare anche noi un piccolo progetto, ma che potrebbe dare loro un grande aiuto: le CAM (Cartes Assurance e Maladie). In sostanza si tratta di un’associazione medica che viene concessa famiglia per famiglia, grazie alla quale si può accedere più concretamente ai servizi medico sanitari” e conclude definendo l’esperienza “un sogno che si è realizzato”.

Filippo Bargnesi
responsabile partenti CMD Fano
volontario Urukundo ONLUS

IL RACCONTO DI EUGENIO E GIULIA:
https://www.ildiso.it/2018/09/il-racconto-missionario-di-giulia-e-eugenio/

 

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Qui i padri stanno tra la gente – Ilaria, esperienza breve in Mozambico

A dodicimila chilometri di aeroporti e di caffè, di corse e di attese, di cellulari scarichi e di risate nuove, in Africa, c’è il Mozambico.
E in Mozambico, a ore di macchina su strade di terra, buche e sassi, tra baobab e sacchi di carbone, tra capanne di fango e asini, ci sono le missioni di Changara, Boroma e Fingoe.
E questa è la mia storia. Nella missione.
Tre distretti della Diocesi di Tete, in zone distanti ma diverse tra loro soltanto per la vegetazione e alcuni gradi di temperatura.

Ma andiamo con ordine… io, Letizia e Melissa, dall’Italia.
Il viaggio verso Changara è stato solo il primo dei tanti che nelle nostre tre settimane di permanenza ci saremmo trovate ad affrontare. A bordo di un pick up, con un Padre missionario alla guida (a destra), una davanti e due dietro a sobbalzare, ascoltare musica africana e guardare sbalordite fuori dal finestrino. Col tempo avrei imparato anche a dormire, incurante delle frequenti battute di testa sul tettino.
Qui Padre Alone, Padre Lucas e Padre Abram portano avanti un “Internato”, ovvero una struttura che fornisce vitto e alloggio a bambini e ragazzi che frequentano le vicine scuole. A loro insegnano la preghiera, il canto, l’educazione e il rispetto per gli altri. Li responsabilizzano affidandogli piccole mansioni e soprattutto danno loro la possibilità di un’istruzione che, altrimenti – abitando in villaggi lontani dalle scuole – non potrebbero avere.
Come in tutte le missioni, anche a qui i Padri si occupano di evangelizzare le comunità circostanti e di portare aiuto concreto. In particolare a Changara vive un gruppo di anziani che sopravvive all’emarginazione sociale che in quasi tutta l’Africa le persone devono subire dopo essere diventate vecchie e improduttive.
Insieme a Padre Alone siamo arrivati in Zimbabwe, abbiamo fatto festa coi ragazzi e visitato case e anche partecipato a momenti di triste quotidianità, come un funerale e gli inconsueti riti che lo seguono.
Qui, come battesimo africano, abbiamo passato il tempo ad osservare e a fare domande, lasciando un po’ della nostra italianità tra  le prime, storpiate parole in portoghese e “mitiche” bruschette per cui verremo ricordate nei secoli dei secoli.

Un paio di giorni dopo, carichi di farina e di macchine da cucire, siamo in viaggio verso Boroma.
Boroma sorge sul Fiume Zambesi, ed è lì che è stata fondata la prima Missione alla fine del 1800 tra la vegetazione lussureggiante e la benedizione dell’acqua che permette di coltivare, di bere, di lavarsi e di fare tante altre cose che a noi sembrano totalmente scontate ma che in Africa – e lo scopriremo sempre di più andando avanti nei giorni – non lo sono affatto.
Qui si vedono donne che fanno il bucato o senza dover fare chilometri per approvvigionarsi di acqua o necessariamente aspettare la stagione delle piogge (che va da novembre e febbraio) ma con un occhio sempre attento: lo Zambesi è infatti popolato da ippopotami e coccodrilli…
Qui ci accoglie Madre Teresiña, una suora di origine brasiliana. Con lei conosciamo diverse realtà: dai mandriani con le mucche al pascolo, alle ragazze della scuola di cucito pomeridiana ai bambini della Scoliña (asilo).
Passiamo del tempo con questi ultimi: li vediamo accostarsi ordinatamente alla grande pentola in cui è stata appena cotta della polenta di miglio – cibo tipico di queste zone – ritirare tazza e cucchiaio e disporsi sulle stuoie a terra per mangiare il loro pasto. E poi ripetere in coro una sequenza di lettere scritte con un gesso sul pavimento, dondolarsi nelle altalene di corda e pneumatici, guardarsi il viso nelle foto dei nostri cellulari e ridere, ridere tanto.
Di loro portiamo a casa tanta vitalità, il rispetto che già in tenera età hanno l’uno per l’altro e la straordinaria indipendenza, nell’andare a scuola da soli già a poco più di due anni, nel lavarsi prima di prendere il piatto, nel fare la fila e mangiare in un modo così ordinato che sfido noi semplicemente alla cassa dell’autogrill.
E’ a Boroma che abbiamo passato il Ferragosto, trasportate sul cassone di un “carro” (auto) insieme a tante altre persone ma anche galline, borsoni, sacchi di semi… Lì abbiamo veramente capito cosa sono la fiducia e la generosità di questo popolo.
Nemmeno quelle che a noi sono sembrate interminabili ore – nell’attesa di un prete molto ritardatario – hanno minimamente destabilizzato tutte quelle persone che, pazientemente, hanno atteso la celebrazione della messa regalandoci lo spettacolo di un offertorio a dir poco inusuale sotto molti punti di vista. Tutte le donne disposte preventivamente fuori dalla Chiesa rientrano e, in fila per due, in una lunga danza al ritmo di bonghi donano alla Chiesa il poco che hanno: riso, pomodori, cavoli, farina. Ognuna col suo piccolo tesoro, ad affidare se stessa e la sua famiglia a Dio…

Il nostro percorso, quello di tre ragazze che non si conoscevano ma che – tra il parlare, mangiare, dormire e vivere questa straordinaria esperienza insieme – stanno diventando amiche vedrà la sua fine e contemporaneamente un nuovo inizio nei restanti 9 giorni che passeremo a Fingoe.
Sarà perché ci abbiamo passato molto tempo, sarà perché l’ho amata ancor prima di arrivarci attraverso i piccoli gesti di generosità che Padre Franco (padre missionario di origine torinese) ha rivolto continuamente verso i bambini che incontrava per strada, nelle sette ore di auto che ci separavano da Tete… Fingoe è stata per me LA Missione, la mia casa d’Africa.
Qui ho respirato l’umiltà dei fondatori, ho sentito sulla pelle l’affiatamento con la popolazione, ho visto negli occhi della gente la fiducia e la gratitudine che veniva sempre, sempre ricambiata.

Fingoe, la missione “in montagna” è giovane: 3-4 anni.
Qui i padri stanno tra la gente: le loro capanne si confondono perché sono fatte allo stesso modo: fango e paglia. Qui quando devo andare al bagno non posso fare più la schizzinosa a riempire la tavoletta di carta, perché tavoletta non ce n’è: una latrina, tra quattro lamiere. Da un anno, prima c’era una buca. Nella nostra capanna c’erano scorpioncini e insetti volanti delle dimensioni di una noce a fare compagnia la notte. Qui abbiamo capito davvero che noi alla fine eravamo anche fortunate perché bene o male il lusso di un materasso ce l’avevamo: molti, anche solo attraversando la strada no.
Qui, oltre allo storico Padre Franco, vivono anche Padre Edoardo, equadoreño, e Padre Giacinto, autoctono.
Quest’ultimo si impegna e dare supporto alla catechesi, all’educazione e all’istruzione di bambini di età diverse, dai 4 ai 12 circa e lo fa grazie anche all’aiuto di ragazzini poco più grandi, pieni di spirito e di voglia di fare.
A Padre Edoardo è affidata l’evangelizzazione delle comunità circostanti: realtà difficili, a volte al limite, dove l’unico conforto non può arrivare che dalla voce di Dio.
E poi tante altre persone strette intorno alla Missione: persone del luogo che con il vantaggio di conoscere la lingua del posto (dialetto africano) possono fare da interpreti o portavoce tra i Padri e le comunità più indietro.
Insieme a queste persone e alla loro generosità i Missionari della Consolata stanno portando avanti un progetto per istruire le Mulheres, cioè le donne, su lavori di cucito, piccole coltivazioni, manovalanze varie.
Qui abbiamo, oltre che come sempre dato una mano come potevamo, anche lasciato un segno indelebile del nostro passaggio: la scritta dipinta a mano sull’insegna della missione.

Andare via da Fingoe, tornare dall’Africa, dopo un viaggio che avrebbe dovuto durare 23 giorni e che invece è diventata la storia di una vita, di tante vite: la mia, quella di Letizia e quella di Melissa che non dimenticheremo mai questa esperienza, che porteremo nel cuore i tutti i sorrisi che abbiamo visto, tutte le risate che ci siamo fatte, tutto il tempo che abbiamo perso.. che dovevamo arrivare fino al sud dell’Africa per capire che non c’è tempo migliore.
Di noi, che torneremo qui.
Le vite di quelle persone che attraverso i nostri ricordi vivranno di quei luoghi, di quella gente. E che si faranno domande.
Le vite di chi è là, che non sono cambiate perché sono passata io, ma che non sanno quanto il loro passaggio ha cambiato la mia.
..che sarà diversa, che lo è già. Che prova ad iniziare sempre con un sorriso, che chiude il rubinetto dell’acqua o spegne la luce di più di frequente, che cerca di correre di meno e di godere di più e di dare di più.

“Basta una persona, un gesto, un momento per cambiare la tua vita per sempre, per cambiare la tua prospettiva, colorare il tuo pensiero. Un momento può costringerti a riconsiderare tutto quello che credi di sapere. Sai chi sei? Capisci cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?”

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Per capire l’Africa, devi viverla – Melissa, esperienza breve in Mozambico

Durante la breve permanenza in Africa, più precisamente in Mozambico, ho elaborato una frase: “PER CAPIRE L’AFRICA, DEVI VIVERLA”.
Eggià! Numerosi servizi giornalistici e documentari non fanno altro che sottolineare la povertà che caratterizza il “continente nero”. Ma l’Africa, o quel poco che ho visitato, non è povera assolutamente.

Quei luoghi vivono dei sorrisi e della spensieratezza dei suoi bambini, che scalzi e con vestiti stracciati emanano energia e capacità di industriarsi e adattarsi a tutte le ore del giorno.
Quei luoghi si adoperano con il lavoro, la dedizione delle donne continuamente indaffarate tra la famiglia, la casa, e il lavoro pur umile che sia. Molte dedicano il loro tempo alla parrocchia e ai progetti di crescita e socializzazione che essa propone.
Quei luoghi camminano grazie alla “correzione fraterna”. Ho visto bambini impossibilitati a frequentare la scuola che si lasciavano istruire da ragazzi poco più grandi di loro. Persone adulte sempre pronte e disponibili ad aiutarsi e a collaborare.

Io, Ilaria e Letizia siamo state accolte da Inácio Saure, vescovo della diocesi di Tete. Durante le 3 settimane abbiamo partecipato, in parte, all’assemblea diocesana che ha radunato circa 200 preti della diocesi. Inoltre abbiamo avuto modo di visitare diversi villaggi come Changara, Fingoe e Boroma.

Villaggi molto diversi tra loro, dal punto di vista del paesaggio, del clima e della vegetazione. Ma aldilà di queste diversità, ho trovato molti punti in comune, molti punti di forza. Come ad esempio la presenza (molto) partecipata dei giovani durante la Liturgia. Attenti alle parole del parroco e sempre pronti a servire l’altare, come chierichetti oppure con danze che inneggiavano lode al Signore, l’amore verso quel Dio che stavano celebrando.
Tutti, e sottolineo tutti, ci hanno ospitato nelle proprie capanne come fossimo delle regine, dallo stringerci la mano al cederci la sedia pur di mettersi loro seduti a terra.

Infine, un ricordo che porto vivo dentro di me, sono i sorrisi che i bambini avevano sul loro volto e la serenità nei propri cuori che trasmettevano con i loro occhi; serenità che mi porto tutt’ora nel cuore con la speranza che mi accompagni per la vita.

Ps: oltre a ripercorrere i ricordi, ci tengo a ringraziare tutti, dal Vescovo di Tete ai padri missionari che ci hanno accolto. Esempio vivo di evangelizzazione tra i popoli, che non hanno nulla, ma vivono della e nella grazia di Dio!

E un grazie particolare al C.M.D. che mi ha permesso di vivere questa bellissima esperienza.

Melissa Cinquino

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Il Brasile non sta bene – P. Roberto Minora

Padre Roberto Minora, missionario comboniano, ci scrive da Balsas, in Brasile. La sua è la trentaduesima lettera della nostra rubrica.

Carissimi amici, oggi tutto tace e le attività sono ridotte, così approfitto per inviarvi i miei auguri pasquali. Allego alcune foto della Messa serale di apertura della Settimana Santa, molto bella, viva e ben partecipata. Oggi alle cinque del mattino abbiamo celebrato la Via Crucis meditata con la partecipazione di tantissima gente.

Il Brasile non sta bene: l’inflazione sta tornando, la corruzione è altissima, il governo sembra essere più debole, la violenza continua aumentando. Martedì la “Commissione di Costituzionalità e Giustizia” della Camera ha dato il primo parere favorevole alla riduzione della maggiore età ai fini penali da 18 a 16   anni. Di diverso avviso le organizzazioni per i diritti umani e i movimenti della società civile, tra i quali in prima fila la Conferenza episcopale (CNBB), per i quali il vero problema oggi non è la violenza dei minori in Brasile, quanto piuttosto quella contro i minori. Basti pensare che gli omicidi che hanno come protagonisti minorenni in Brasile rappresentano appena lo 0,1% del totale, mentre gli adolescenti uccisi sono il 36%.Per la Chiesa brasiliana la riduzione dell’età minima per essere perseguibile penalmente e l’allungamento della detenzione dei minori che hanno commesso reati non sono la soluzione al problema della violenza nella società. E’ quanto afferma una dichiarazione pubblicata dalla Caritas, insieme al Dipartimento dei vescovi per la pastorale dei minori e al Fronte per la difesa dei diritti dei bambini. “La cultura della pace non si ottiene per magia con questi mezzi”, afferma il testo, sottolineando che di fatto quello che manca è l’effettiva applicazione dello Statuto per il bambino e l’adolescente (ECA) in Brasile.
Buon triduo a tutti.

P. Roberto Minora
Cx.P. 114- Missionários Combonianos 

65800-000 Balsas (MA)- Brasil

Telefono casa: 0055 99-3541-7911 – Cel: 0055-98 98129-7003
Carta Postepay di Roberto Minora: nº 4023 6006 4656 7869

https://www.facebook.com/roberto.minora.7

 

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C’è tanta bellezza laggiù e si ha occasione di capire tanto anche in poco tempo – Sara Marcucci

La trentunesima “lettera dalla missione” è quella che scrive Sara raccontando la sua recente esperienza in Kenya, nella missione di Kipsing. Godetevela!

”(Ulisse) quando fu di nuovo a casa capì, con stupore, che la sua vita, l’essenza stessa della sua vita, il suo centro, il suo tesoro, si trovava fuori da Itaca, in quei vent’anni di vagabondaggio. E quel tesoro l’aveva perduto, e l’avrebbe recuperato solo raccontando.” [Kundera – L’ignoranza]

Comincio con questa frase di Kundera la mia breve e maldestra testimonianza del viaggio in Africa, in Kenya. Queste poche parole riferite dell’avventuriero per eccezione mi hanno smosso qualcosa dentro, mi ci sono ritrovata, rendono alla perfezione cosa significhi il Mal d’Africa che, fin da poco prima del ritorno a casa, mi accompagna come un’ombra e, di tanto in tanto, quando abbasso la guardia o vedo qualcosa che non mi piace, mi atterra con immagini prepotenti e cariche di una forte nostalgia. Mi chiamo Sara, sono una studentessa universitaria, ho compiuto ventidue anni il 4 gennaio, esattamente quattro giorni prima di partire per la mia esperienza nella missione di Kipsing in Kenya; tenterò di rendere giustizia alla grande ricchezza che mi sono riportata a casa il 30 gennaio di quest’anno.

Voler visitare una missione non era un desiderio dell’età adulta, un’occasione apparsa dal nulla e presa al volo; sin da bambina ho desiderato intraprendere questo viaggio, vivere un’esperienza così, conoscere una realtà diversa dalla mia. Deriva tutto dalla mia educazione e dalle persone che ho frequentato sin da piccola, è stato loro il merito se questo sogno ha fatto parte di me sin dalla tenera età e ora si è realizzato.

Dagli otto ai ventuno anni ho pazientemente aspettato, prima di essere abbastanza grande, poi che la vita mi presentasse l’occasione, ma alla fine capii che l’occasione dovevo trovarla io stessa.

Fu così che conobbi Don Luciano e in seguito le altre sei persone che mi hanno accompagnato laggiù (Filippo, Carla, Laura, Silvia, Sauro e Marta), riuscii a coinvolgere anche mia zia (Daniela) e la compagnia fu al completo.

Siamo partiti l’8 gennaio da Fano e siamo arrivati a Nairobi alle quattro del mattino del 9. Personalmente ho vissuto i mesi prima di partire investita da paure e da ansie che comprendevano, a intervalli regolari, ragni somali, ebola, cambiamenti e aspettative deluse. Paure e ansie che sono sparite nel momento stesso in cui sono arrivata in Africa, tanta era la gioia di esserci dopo aver a lungo sognato quel continente, così forte la sensazione di trovarmi al sicuro e a casa, che ogni cosa che avevo temuto mi è apparsa così piccola. A Kipsing siamo arrivati di sera, almeno una parte di noi, e solo il giorno dopo abbiamo visto chiaramente il paesaggio che ci avrebbe abbracciato per le tre settimane successive.

C’è tanta bellezza laggiù e si ha occasione di capire tanto anche in poco tempo. Personalmente non ho fatto molta fatica ad ambientarmi, a prendere il ritmo, perché era molto vicino alla mia indole tranquilla e riflessiva (e credo che sia anche questo che mi abbia reso traumatica la fine del viaggio), ma credo anche che tutti si sentano un po’ tra muri “familiari” quando stanno lì. Padre James e il diacono Josephat hanno contribuito a far sì che non ci sentissimo estranei, coinvolgendoci completamente nella vita quotidiana e integrandola con ciò che ci portavamo dall’Italia. 11066099_874050179304835_1970067221_o

Durante il nostro soggiorno visitammo Marsabit, rimanendoci tre giorni, ospitati dalle Pink Sister, il paesaggio era così diverso da quello che avevamo abitato per i primi cinque giorni, quel paesaggio che chiamavamo già “casa”. Vedemmo la realtà dei bambini ricoverati nella casa che gestiscono, bambini con handicap che non si vergognavano di essere nati così, ragazzi impavidi, gioiosi, fieri di essere ciò che sono. Giocammo a calcio con loro, ascoltammo i loro racconti, li esaudimmo quando chiedevano di farsi le foto con noi. I sorrisi di tutti loro, ognuno con la sua particolarità, si stamparono con inchiostro indelebile nei nostri cuori.

Nel viaggio di ritorno da Marsabit facemmo una deviazione per Wamba, dove c’è l’ospedale fondato da un italiano, e anche lì vi erano le Pink Sister che gestivano un’altra casa per bambini e ragazzi portatori di handicap; fu uscendo da quel ricovero che mi sentii un po’ oppressa per la prima volta, un po’ ingiustamente fortunata. Tenni in braccio per tutta la visita il bambino più piccolo, soffre di cecità sin dalla nascita, e quando lo vidi per la prima volta, piangeva. Ma quando lo presi in braccio il suo pianto si trasformò in risa, le sue mani trovarono la mia collana e cominciarono a giocarci. Separarsi da quel piccolo angelo fu difficile, terribilmente difficile, avrei voluto portarlo con me e prendermi cura di lui per tutta la vita, ma dovetti salutarlo per sempre, ciò mi spezzò il cuore.

I giorni che passammo a Kipsing furono molto diversi da quelli della nostra piccola gita al di fuori di lì. In quella che già sentivamo casa nostra avevamo stabilito tacitamente le nostre routine, i nostri ruoli, avevamo imparato a riconoscere i volti di coloro che bazzicavano nella missione quasi continuamente, portammo qualcosa di buono con i nostri lavori di manutenzione (pitturammo i dormitori e sistemammo, per quanto possibile, i bagni), riuscimmo anche a visitare i villaggi in cui padre James fa catechesi e a constatare se gli asili funzionino come dovrebbero. Siamo stati parte della comunità quando con le donne abbiamo preparato il chapati, quando facevamo giocare i bambini nei lunghi pomeriggi, quando ci svegliavamo presto per le messe o quando ballavamo in quelle delle dieci della domenica.

Ho imparato a lavorare e non sentire la fatica, ho re-imparato a stupirmi per il nuovo, a gustare con gli occhi quei colori vivaci che portavano addosso i samburu e a non scandalizzarmi se un uomo tentava di comprarmi per mille cammelli e qualche centinaia di mucche, ho imparato, vedendo il loro modo di vivere, che l’essenziale qualche volta ti ricorda di apprezzare anche quel superfluo che hai e non ti accorgi di avere, ma di cui non senti la mancanza in quei luoghi. Ho imparato ad accontentarmi di lavare a mano i vestiti e a non stirarli, ho imparato che quello che hai nel piatto deve essere mangiato perché fuori dalla porta, a poche centinaia di metri, c’è gente che fa un solo un pasto al giorno. La cosa più divertente che ho imparato è stata quella di non sentirmi in colpa durante le lunghe pause pomeridiane, quando il sole scottava e non potevi andare a zonzo nella savana, e ti ritrovavi a far nulla sotto la veranda; i tempi dilatati, il ritmo lento e pacifico ti abbracciavano e star con le mani in mano in quel luogo aveva cambiato accezione alla parola ozio: a casa la sentivi negativa, lì era in armonia, era quasi un segno che ti stavi integrando.

Ma sono i bambini coloro che mi hanno insegnato di più. Quei piccoli volti governati dall’entusiasmo, quegli occhi scuri che trasmettevano la gioia di vivere, quel primordiale istinto di esistere che in Italia spesso e volentieri non incontri, mi hanno lasciato dentro la sensazione di aver incontrato l’amore di Dio in ognuno di loro. Nelle loro risate, nella loro curiosità, nei loro tentativi di farsi capire, nel loro affidarsi alla stretta delle tue braccia anche se non ti conoscono, ho riconosciuto una bellezza autentica, unica, che mi ha reso migliore.

In quei ventuno giorni ho riscoperto il senso della vita, la fortuna di averne una.

Al momento di salutare Kipsing le lacrime non potevano far altro che scendere, mentre il Mal d’Africa , quello di cui sentivo parlare ma che ancora non conoscevo, si appropriava del cuore e lo rapiva per sempre; ora lo tiene appiccicato a quella terra calda e rossa, a quelle mani scure che mi hanno cercato fin dal primo momento, al cielo stellato che mi stupiva ogni sera, quando alzavo gli occhi per godermi la meraviglia del manto nero puntinato da milioni di lucciole bianche, e mi faceva sentire così piccola.

Agli sgoccioli dell’esperienza passammo anche qualche giorno nella missione di ‘Ngare Mara, gestita sempre dalle Pink Sister, visitammo la riserva naturale imbattendoci in animali che fino a quel momento avevamo visto esclusivamente in televisione. Ma anche trovarsi faccia a faccia con sei leonesse, un centinaio di elefanti, qualche giraffa, facoceri, antilopi e quant’altro, non riuscì a distrarmi dalla consapevolezza che stava già finendo tutto; si sentiva l’aria dell’Italia che ci richiamava indietro e non riuscii a tenere nascosta la tristezza che mi governava, ero quasi in lutto. Mentre in quei giorni alla missione di Kipsing mi ero inconsciamente rifiutata di tenere i tempi, di segnarmi date o appuntarmi ciò che vedevo o facevo, fare un passo verso Nairobi mi scosse, salutare James mi distrusse, e cominciai a scrivere. Io, che amo tanto raccontare attraverso la scrittura, sorprendentemente non ero riuscita ad applicarmi nei giorni precedenti, probabilmente fu il desiderio di restare a far muovere la penna sulla carta, forse per tentare, anche solo con le parole, di trattenermi laggiù più a lungo di quello che mi era concesso.

Nei ricordi che mi sono riportata in Italia sento ancora i canti della messa che traducevano i sentimenti del cuore, rivedo i balli del matrimonio Samburu a cui abbiamo partecipato, mi risuonano in testa gli aforismi di Tony o il particolare YES di Josephat quando parlava con noi. Nel petto ho l’impronta dell’orecchio di Toma, la sento che cerca il battito del mio cuore per addormentarsi, qualche volta pare che il collo si pieghi in modo strano come nei balli in cui ci coinvolgevano le donne dei villaggi, mi manca addirittura il ragliare notturno dell’asino che passeggiava nel cortile o quella zanzariera bucherellata che usavo per proteggermi da un’eventuale visita di aracnidi più che per proteggermi dalle zanzare, quando chiudo gli occhi mi viene così facile immaginare la pianura rossa battuta dal sole e abbracciata dalle montagne.

Riprendere il ritmo della mia vita è stato più complicato del previsto. Nei primi tempi, dopo il ritorno, mi svegliavo di notte e non riuscivo a capire dove fossi, sentivo estranea la camera in cui dormivo da una vita. Mi scoprivo delusa nel sapere che non ci sarebbe stata la messa delle sei e mezzo del mattino, detta in un linguaggio incomprensibile, che non ci fossero James e Josephat a salutarmi in inglese o i miei compagni di viaggio a sorridermi, che a colazione non avrei trovato BlueBand, pane fatto in casa, frutti della passione, mango e avocado, che alle dieci non mi sarei immersa nella savana armata di rullo e vernice e scrutata da occhi che trovavano incomprensibile quello che stavamo facendo, che non avrei dovuto lavare a mano i vestiti, che non avrei potuto lasciare che i capelli si asciugassero al sole, che alle magliette leggere avrei dovuto sostituire quelle di lana, che avrei guidato personalmente la macchina invece di saltare sul cassone del pick-up verde, schivare i rami carichi di spine o tentare di ammortizzare buche inevitabili. La mia vita mi era diventata estranea tutta a un tratto, come se ci fosse stato uno scambio, come se Vergineto non fosse il luogo che avevo abitato per ventidue anni

Ma c’è stata una cosa che hanno notato tutti al mio ritorno e che mi ha fatto sentire anche un po’ incompresa varcando la soglia di casa: il sorriso. Sono tornata felice, felicissima, da quelle tre settimane. L’entusiasmo mi scorreva nelle vene come sangue e ha collimato prepotentemente con la grigia realtà che mi preparavo a risentire mia, con le cose brutte che erano successe durante la mia assenza e che hanno messo un po’ in ombra quella mia voglia di raccontare, di gioire, di portare la mia esperienza a quelle persone che avevo lasciato a casa.

In Africa avevo provato un po’ di senso di colpa per non aver sentito la mancanza della “me italiana”, per non aver trovato la lontananza un peso, ma quasi una fortuna, per essermi abituata immediatamente a non vedere il volto dei miei cari ogni giorno, per considerare quasi superfluo raccontare per telefono di quello che vivevo. Ero convinta, sono convinta, che per comprendermi dovrebbero vivere questa esperienza, farsi contagiare dalla bellezza di quei luoghi e di quelle persone, da quando sono tornata continuo a consigliarla a tutti, a volere che la facciano.

Io ho affrontato e vinto paure, ho conosciuto gente stupefacente, sono riuscita ad accettare e comprendere la diversità in tutte le sue forme, sono cresciuta. E vorrei tornare! Ci sto già pensando…

Concludo il mio racconto con un ringraziamento moltiplicato per otto. Grazie a Don Luciano, Filippo, Marta e Sauro, Carla, Laura, Silvia e zia Dani, siete stati la mia famiglia e sono contenta di aver vissuto questa esperienza con voi. Grazie per questa opportunità, per questo sogno che si è realizzato, per questi ricordi che mi arricchiscono e per questa sana nostalgia che sento ogni giorno.

Sara

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